Negli anni ’80 del secolo scorso il sociologo tedesco Ulrik Beck analizzando le mutazioni delle società post-industriali, vi rilevava il sopraggiungere di nuove forme di individualismo, originate dalla necessità di dare risposte differenziate e variabili alle sfide di una rischiosa quotidianità. Scriveva Beck nel 1986: “Vivere in una società rischiosa significa vivere con una calcolato orientamento verso le aperte possibilità di azione, positive e negative, attraverso le quali, come individui e globalmente, ci confrontiamo continuamente nella nostra esistenza sociale contemporanea”. Chiamò questa nuova attitudine, che l’uomo del presente andava darwinianamente evolvendo, DIY. L’acronimo stava per Do It Yourself, e sintetizzava il fatto che ogni individuo andava ormai diventando una ditta in proprio, un’azienda individuale. Teoricamente a noi architetti questo individualismo dovrebbe piacere assai, giacché ne dovrebbe derivare una generosa diversificazione dei modi di fare architettura, soprattutto oggi, in una situazione di assenza di idiomi dominanti. In questo contesto i progettisti dovrebbero potersi sentire liberi di costruire in qualsivoglia stile a loro piaccia. Nella pratica sappiamo però che non è così. L’attuale libertà personale è fortemente market-oriented e la capacità decisionale dei singoli, assai ridotta dai rigidi binari...dall'editoriale di Franco Panzini.